Leggiamo questo post del 26 maggio 2011 pubblicato sul blog di Rete 29 Aprile sul sito de Il Fatto Quotidiano.
Il particolare che la maggior parte dei Senatori firmatari dell'interrogazione in oggetto non appartenga al centrodestra dà da pensare.
Ispirata al Rapporto Browne inglese, essa rappresenta un attacco all'istruzione universitaria quale diritto di tutti i cittadini.
Interessante da conoscere in merito all'argomento trattato è anche il contenuto di un intervento di Paolo Barnard, scritto al tempo dell'attuazione del sopraccitato progetto di Lord Browne: potete leggerlo qui .
Qua sotto, riporto integralmente il testo dell'articolo di Francesca Coin di Rete 29 Aprile.
r. v.
Università: il peggio deve ancora venire
Si prova un senso di orrore nel leggere l’interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione presentata il 18 maggio 2011 dai Senatori Ichino, Ceccanti, D’Alia, Germontani, Leddi, Marino, Morando, Poli Bortone, Rossi, Rusconi, Rutelli, Tonini, Treu, Valditara. Ispirato al Rapporto Browne dell’Inghilterra, il testo appare come un tentativo nemmeno troppo pudico di pianificare l’indebitamento di massa di un’intera generazione in età pre-lavorativa al fine di esternalizzare su studenti e famiglie il finanziamento dell’università pubblica.
“L’interrogazione che abbiamo presentato si ispira essenzialmente a questa idea”, recita il documento: “Il sistema universitario Italiano è al collasso finanziario per gli effetti combinati delle politiche sovente sconsiderate di assunzione da parte degli atenei […] e dei recenti tagli indiscriminati effettuati dal Governo” (premessa, peraltro, già tutta da dimostrare, visto che la politica di assunzione italiana è stata tanto sconsiderata da portare ad uno dei livelli più bassi nel numero di docenti per studente).
Dato tale collasso – al quale i proponenti sono certamente estranei – i suddetti propongono al Ministero di sperimentare in Italia il modello Browne, lo stesso che lo scorso autunno in Inghilterra ha scatenato un’insurrezione studentesca. Com’è noto, il Rapporto Browne, elaborato tra il 9 Novembre 2009 e il 12 ottobre 2010, alza a 9.000 sterline la retta universitaria annua per studente e propone agli studenti meno abbienti di pagarne i costi avvalendosi di mutui bancari con interessi al 2,2%.
Sino al 1 settembre 2004, era possibile per gli studenti inglesi inadempienti dichiarare bancarotta, e cancellare il debito: così prevedevano le linee guida dell’Insolvency Service secondo il quale i debiti studenteschi contratti per godere di un diritto potevano essere cancellati in caso di bancarotta. Quando i casi di bancarotta sono aumentati, passando da 276 nel 2002 sino a 899 nel 2004 come effetto della crisi occupazionale, l’allora ministro dell’istruzione Alan Johnson ha proposto e ottenuto che i debiti studenteschi rimanessero responsabilità del contraente. E’ così che da qualche anno l’esternalizzazione dei costi statali sugli studenti e le loro famiglie è sfociata in un indebitamento di massa.
“L’interrogazione che abbiamo presentato si ispira essenzialmente a questa idea”, recita il documento: “Il sistema universitario Italiano è al collasso finanziario per gli effetti combinati delle politiche sovente sconsiderate di assunzione da parte degli atenei […] e dei recenti tagli indiscriminati effettuati dal Governo” (premessa, peraltro, già tutta da dimostrare, visto che la politica di assunzione italiana è stata tanto sconsiderata da portare ad uno dei livelli più bassi nel numero di docenti per studente).
Dato tale collasso – al quale i proponenti sono certamente estranei – i suddetti propongono al Ministero di sperimentare in Italia il modello Browne, lo stesso che lo scorso autunno in Inghilterra ha scatenato un’insurrezione studentesca. Com’è noto, il Rapporto Browne, elaborato tra il 9 Novembre 2009 e il 12 ottobre 2010, alza a 9.000 sterline la retta universitaria annua per studente e propone agli studenti meno abbienti di pagarne i costi avvalendosi di mutui bancari con interessi al 2,2%.
Sino al 1 settembre 2004, era possibile per gli studenti inglesi inadempienti dichiarare bancarotta, e cancellare il debito: così prevedevano le linee guida dell’Insolvency Service secondo il quale i debiti studenteschi contratti per godere di un diritto potevano essere cancellati in caso di bancarotta. Quando i casi di bancarotta sono aumentati, passando da 276 nel 2002 sino a 899 nel 2004 come effetto della crisi occupazionale, l’allora ministro dell’istruzione Alan Johnson ha proposto e ottenuto che i debiti studenteschi rimanessero responsabilità del contraente. E’ così che da qualche anno l’esternalizzazione dei costi statali sugli studenti e le loro famiglie è sfociata in un indebitamento di massa.
Il debito studentesco in Inghilterra, Giappone, Stati Uniti e Canada è in costante crescita. In Giappone, scrive Norihito Nakata, la maggioranza degli studenti è costretta ad avvalersi di prestiti con interesse: minori sono i mezzi, infatti, e maggiore è il tasso di interesse che la banca impone ai giovani contraenti. Spesso, prima ancora di trovare un lavoro, molti studenti giapponesi hanno così accumulato un debito di circa 10 milioni di yen (circa 86 mila euro).
In riferimento a questa inevitabile deriva, i sopracitati senatori del Pd (da cui Meloni ieri si è dissociato) fanno al Governo alcune squisite proposte, ovvero chiedono letteralmente se il governo consentirebbe “la sperimentazione anche in Italia di una soluzione simile a quella adottata oltre Manica”. Nel tentativo di pianificare un modello di indebitamento programmato degli studenti, propongono così una visione interessante: poiché il rischio congiunto di indebitamento e disoccupazione porterà “gli studenti a scegliere le università migliori, ossia quelle la cui qualità consentirà di ripagare il costo dell’investimento effettuato”, la corsa all’investimento educativo come prerequisito per un lavoro redditizio stimolerà “una competizione tra gli atenei per migliorare la qualità della loro offerta formativa”.
Se da un lato questo consentirebbe il totale disimpegno statale nel finanziamento pubblico all’università riversandolo sulle tasse, dall’altro la necessità di scegliere le università migliori acuirebbe la competizione tra atenei virtuosi e atenei di secondo livello, e comporterebbe l’obbligo di massimo impegno per chi vi lavora: assegnisti, docenti, ricercatori precari e non. Anche gli studenti sarebbero chiamati alla responsabilità: non è detto, infatti, che tutti debbano studiare: “al fine di stimolare gli atenei alla migliore selezione degli studenti”, è bene introdurre “una disposizione che autorizzi lo Stato a rivalersi sugli atenei che facessero registrare una frazione troppo elevata di studenti inadempienti rispetto all’obbligo di restituzione del mutuo”.
In altre parole, gli studenti privi di mezzi, in quanto contraenti a rischio, dovranno essere selezionati con la massima cautela affinché il loro desiderio di formazione non vada a detrimento dello stato. Ecco che questo documento (della peggior specie nella sua candida deriva classista) è non solo illuminante nel suo intento di esternalizzare debiti antichi sui ventenni, ma è potenzialmente incostituzionale nel trasformare l’istruzione in un diritto selettivo: gli atenei, tant’è, non dovranno istruire tutti, ma solamente gli studenti meno esposti al rischio di insolvenza, pena una disposizione punitiva nei loro confronti. E non è finita qui.
In riferimento a questa inevitabile deriva, i sopracitati senatori del Pd (da cui Meloni ieri si è dissociato) fanno al Governo alcune squisite proposte, ovvero chiedono letteralmente se il governo consentirebbe “la sperimentazione anche in Italia di una soluzione simile a quella adottata oltre Manica”. Nel tentativo di pianificare un modello di indebitamento programmato degli studenti, propongono così una visione interessante: poiché il rischio congiunto di indebitamento e disoccupazione porterà “gli studenti a scegliere le università migliori, ossia quelle la cui qualità consentirà di ripagare il costo dell’investimento effettuato”, la corsa all’investimento educativo come prerequisito per un lavoro redditizio stimolerà “una competizione tra gli atenei per migliorare la qualità della loro offerta formativa”.
Se da un lato questo consentirebbe il totale disimpegno statale nel finanziamento pubblico all’università riversandolo sulle tasse, dall’altro la necessità di scegliere le università migliori acuirebbe la competizione tra atenei virtuosi e atenei di secondo livello, e comporterebbe l’obbligo di massimo impegno per chi vi lavora: assegnisti, docenti, ricercatori precari e non. Anche gli studenti sarebbero chiamati alla responsabilità: non è detto, infatti, che tutti debbano studiare: “al fine di stimolare gli atenei alla migliore selezione degli studenti”, è bene introdurre “una disposizione che autorizzi lo Stato a rivalersi sugli atenei che facessero registrare una frazione troppo elevata di studenti inadempienti rispetto all’obbligo di restituzione del mutuo”.
In altre parole, gli studenti privi di mezzi, in quanto contraenti a rischio, dovranno essere selezionati con la massima cautela affinché il loro desiderio di formazione non vada a detrimento dello stato. Ecco che questo documento (della peggior specie nella sua candida deriva classista) è non solo illuminante nel suo intento di esternalizzare debiti antichi sui ventenni, ma è potenzialmente incostituzionale nel trasformare l’istruzione in un diritto selettivo: gli atenei, tant’è, non dovranno istruire tutti, ma solamente gli studenti meno esposti al rischio di insolvenza, pena una disposizione punitiva nei loro confronti. E non è finita qui.
Lo scorso 13 maggio, infatti, il governo ha approvato il decreto Sviluppo (DL 70) che prevede, all’art. 9, l’istituzione di una Fondazione che attribuisce al Ministero dell’Economia la gestione del Fondo per il Merito istituito dalla Legge Gelmini. La riduzione del fondo per le borse di studio di più del 90% non era sufficiente: il diritto allo studio viene ora governato dalle disponibilità contingenti di una Fondazione a vigilanza stretta del Ministero dell’Economia, con il pregio oramai noto di introdurre spazi d’autonomia nella gestione del denaro pubblico.
Un recente articolo di Malcolm Harris osserva scrupolosamente le conseguenze di tali meccanismi negli Stati Uniti. Ora che i prestiti agli studenti hanno superato le carte di credito come maggiore fonte di debito del paese, più del 30% dei debiti sono convertiti in titoli negoziabili garantiti dal Governo Federale chiamati Slabs. E “poiché gli studenti non possono dichiarare bancarotta, i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione. Se uno studente non paga, l’agenzia di garanzia, anche se è stata rimborsata dal Governo Federale […] è incoraggiata a perseguitare gli ex studenti fino alla tomba”. Insomma, stando alle proposte dei senatori, per meritarsi un’istruzione gli studenti dovranno ipotecarsi la vita. Torna in mente quello che è avvenuto in Inghilterra in autunno. E una domanda: cui prodest?
Un recente articolo di Malcolm Harris osserva scrupolosamente le conseguenze di tali meccanismi negli Stati Uniti. Ora che i prestiti agli studenti hanno superato le carte di credito come maggiore fonte di debito del paese, più del 30% dei debiti sono convertiti in titoli negoziabili garantiti dal Governo Federale chiamati Slabs. E “poiché gli studenti non possono dichiarare bancarotta, i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione. Se uno studente non paga, l’agenzia di garanzia, anche se è stata rimborsata dal Governo Federale […] è incoraggiata a perseguitare gli ex studenti fino alla tomba”. Insomma, stando alle proposte dei senatori, per meritarsi un’istruzione gli studenti dovranno ipotecarsi la vita. Torna in mente quello che è avvenuto in Inghilterra in autunno. E una domanda: cui prodest?
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